L’odore di cipolla fritta si diffondeva per l’appartamento. Luda mescolava meccanicamente la salsa, lanciando uno sguardo all’orologio. Valera sarebbe tornato dal lavoro tra mezz’ora e la cena doveva essere servita calda: il marito non sopportava il cibo freddo.
Ultimamente, Luda si accorgeva sempre più spesso che cucinava come un robot. Un tempo, ogni piatto era un atto d’amore: sperimentava ricette, decorava i piatti, cercava di sorprendere. Ora era diventata semplicemente un dovere. Come molte altre cose in quella casa.
La porta sbatté prima del solito. Luda sussultò, si asciugò velocemente le mani sul grembiule e guardò nel corridoio.
— Valeroccia, sei già a casa? La cena sarà pronta fra quindici minuti, — disse in fretta.
— Non sono da solo, — rispose il marito, togliendosi le scarpe.
Dietro di lui comparve la figura massiccia della suocera.
— Buonasera, Nadia Pavlovna, — Luda cercò di fare un sorriso. — Entrate, sto giusto cucinando.
— Di nuovo la salsa? — fece una smorfia Nadia Pavlovna, guardando la cucina. — Quante volte te l’ho detto: la cipolla deve diventare dorata, non carbone. Altrimenti tutto sa di amaro.
Luda si voltò in silenzio verso i fornelli. Era inutile discutere. Nadia Pavlovna trovava sempre qualcosa da criticare. Eppure la cipolla era perfettamente caramellata, nemmeno bruciata.
— Mamma, basta, — disse Valera, buttandosi su una sedia. — Mia moglie cucina bene. Mi nutre — e va bene così.
— Già, solo “va bene”, — rispose la suocera. — Dovrebbe essere “da leccarsi i baffi”. Quando avevo la tua età, facevo pranzi deliziosi per tuo padre — tutti in ufficio mi invidiavano!
Luda si disconnesse abitualmente dalla loro conversazione. Cinque anni di matrimonio l’avevano insegnata a non prendere troppo sul serio le critiche continue. Alla fine, la suocera e il figlio si trovavano sempre d’accordo, e cercare di intromettersi significava solo farsi venire i nervi.
Il telefono sul tavolo vibrò. Luda si allungò per prenderlo, ma Valera fu più veloce.
— Ti chiamano da Berezovka, — disse guardando lo schermo. — Probabilmente è la protezione sociale riguardo tua nonna.
Il cuore di Luda si strinse. Tre settimane prima era morta sua nonna Zina, l’unica persona che l’aveva sempre sostenuta. Le telefonate da Berezovka, dove si trovava la casa della nonna, la ferivano ancora.
— Pronto, — rispose Luda a bassa voce, allontanandosi verso la finestra.
Era Antonina Sergeevna, la vicina della nonna. La sua voce era gentile ma insistente:
— Ludochka, devi venire. Bisogna sistemare i documenti per la casa. E poi dai un’occhiata, vedi come sta. C’è qualche giardino, qualcosa. È un peccato abbandonarla.
— Sì, certo, verrò nel weekend, — rispose Luda.
La conversazione fu breve, ma dopo di essa Luda sentì una strana determinazione. Era davvero il momento di sistemare l’eredità della nonna.
— Ancora per la casetta? — chiese Valera con la bocca piena. — Vendi quella roba il prima possibile, per non avere guai. Solo soldi buttati.
— Non voglio venderla, — rispose Luda con voce bassa ma decisa. — È un ricordo di mia nonna.
— Oh, non cominciare con questa storia dei ricordi! — sbuffò il marito. — Ma quale ricordo? Una baracca in fondo al paese, senza neppure il gas.
— Ma c’è un fiume vicino, — rispose Luda. — E un giardino di meli. Mia nonna era sempre fiera di quello.
La suocera fece un sorrisetto:
— Ma che Dio ci aiuti, non mi dire che vuoi andarci a vivere! In quel posto sperduto, senza nessun comfort. Che strano posto per te.
Le settimane successive passarono in un turbinio di corse. Luda aveva preso una pausa dal lavoro per sistemare le pratiche dell’eredità. Doveva andare tra notaio, ufficio delle imposte e il comune di Berezovka. Valera non sembrava interessato a queste faccende, si arrabbiava solo per la sua assenza a casa.
— Dove vai tutto il giorno? — si lamentava quando Luda tornava stanca. — Le mie camicie non sono stirate, e la cena non c’è!
— Valera, ti ho spiegato, — rispondeva stancamente Luda. — Sto sistemando l’eredità. Al lavoro mi hanno dato solo due settimane.
— A chi interessa quella baracca? — insisteva il marito. — Vendi quella roba al primo che capita e finisce lì!
A queste parole Luda aveva imparato a rispondere solo con il silenzio. Dentro di lei cresceva un sentimento strano — come se quella casetta di Berezovka, che non aveva visto dopo la morte della nonna, fosse qualcosa di più di una semplice casa. Un pezzo di passato che voleva preservare.
Il giorno in cui Luda ricevette i documenti che confermavano il suo diritto di proprietà sulla casa della nonna avrebbe dovuto essere un giorno felice. Aveva persino preparato una cena speciale e comprato una bottiglia di vino. Voleva condividere almeno una parte della sua vita con il marito.
La sera, quando Valera tornò dal lavoro, Luda stese i documenti sul tavolo e, con orgoglio, disse:
— Ecco, finalmente tutto è sistemato. Ora la casa è ufficialmente mia.
Ma invece di congratularsi, il marito emise un suono scettico:
— Almeno ora sai dove andare.
Luda sorrise confusa:
— Cosa intendi dire?
— Proprio quello che intendo, — fece spallucce Valera. — Se non funziona tra noi, almeno hai un posto dove andare. Nella tua casetta.
Quella sera arrivò anche Nadia Pavlovna, come se avesse sentito che fosse il momento giusto per dare il suo parere. Vedendo l’estratto catastale, la suocera emise un fischio sarcastico:
— Oh, ora sei una proprietaria terriera! Quanti sono, quindici sottili con una casa decrepita?
— La casa non è decrepita, — cominciò a difendersi Luda. — Semplicemente nessuno ci ha vissuto per un po’, non l’hanno curata…
— Ma dai, che fai, — interruppe Valera, scambiando uno sguardo con sua madre. — Stiamo scherzando. La tua casetta ti servirà, se mai ti servisse.
E entrambi risero. Ma quel riso non era come quello tra persone che si vogliono bene. C’era qualcosa di offensivo e umiliante. Luda sentì un nodo allo stomaco. Non era umorismo, era disprezzo.
Il giorno dopo, Nadia Pavlovna arrivò presto. Luda stava per uscire per andare al lavoro quando la suocera entrò senza bussare.
— Ti ho portato dei pomodori, — disse, entrando direttamente in cucina. — Dal mercato. Non come quelli che compri tu, senza sapore.
— Grazie, — rispose tranquillamente Luda, continuando a prepararsi. — Ma abbiamo ancora pomodori. Li ho comprati ieri.
Nadia Pavlovna aprì il frigorifero, prese il vassoio di pomodori e lo annusò ostentatamente.
— Ma che pomodori sono questi? Solo bucce! — si lamentò. — Buttali via e prendi i miei.
— Perché dovrei buttarli? — si sorprese Luda. — Sono perfettamente buoni. Li ho comprati per l’insalata.
— Non hai capito quello che ti sto dicendo? — alzò la voce Nadia Pavlovna. — Ho detto: buttali!
E in quel momento qualcosa dentro Luda si spezzò definitivamente. Cinque anni di critiche continue, tentativi di compiacere, tensioni incessanti — tutto improvvisamente le sembrò senza senso. Lentamente si avvicinò al frigorifero, prese i suoi pomodori e, con la stessa calma, li rimise sullo scaffale.
— No, Nadia Pavlovna, non li butterò. Sono buoni. E anche se fossero cattivi, sono io a decidere cosa farne.
La suocera rimase senza parole.
— Valera! — gridò. — Vieni a vedere cosa permette tua moglie!
Valera uscì dalla stanza sbadigliando.
— Cosa succede?
— Tua moglie non mi rispetta! — si infuri
ò Nadia Pavlovna. — Non ho mai visto una cosa del genere!
Valera guardò Luda con un’espressione di disapprovazione, ma non disse nulla. Un altro giorno normale. Una giornata come tante.
Ma per Luda, quella non sarebbe stata più una giornata normale. Quella era la fine.