“La tavola è nata per essere vissuta, non rinchiusa,” risposi.

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Quando mi sono trasferito nel mio nuovo appartamento a Bologna, non avevo praticamente nulla: un materasso gonfiabile, una caffettiera e un entusiasmo esagerato. Fu mia zia Margherita, sempre un po’ eccentrica, a propormi di portarmi “una tavola antica che non sa dove mettere”.

La tavola arrivò due giorni dopo. Era enorme, in legno scuro e spesso, con intarsi floreali lungo i bordi e un’aria quasi solenne. Aveva sei sedie di legno pesante che cigolavano al minimo tocco. Non c’entrava nulla con l’arredamento moderno dell’appartamento, ma qualcosa mi impediva di rifiutarla. Forse l’odore: un misto di cera, tempo e ricordi.

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Una sera, mentre la lucidavo, notai qualcosa di strano. Un piccolo cerchio inciso sul lato inferiore del piano, quasi invisibile. Lo toccai, e la tavola fece un rumore sordo: un clic. Una parte del piano si sollevò appena, rivelando un doppio fondo.

Dentro c’era un diario.

La pelle era screpolata, le pagine fragili. Apparteneva a un certo Ettore Manfredi, datato 1919. Era un ebanista, e quella tavola era la sua creazione più preziosa. Ma il diario raccontava molto più di tecnica: parlava di sette incontri segreti che si erano tenuti attorno a quella tavola, durante e dopo la Grande Guerra.

Ettore aveva ospitato un gruppo di artisti, pensatori e attivisti che sognavano un’Italia nuova, libera da autoritarismi, in un’epoca in cui certe idee ti potevano mandare dritto in galera. Si chiamavano “I Sette Silenziosi”. Ogni seduta alla tavola era un piccolo atto di rivoluzione.

Il diario includeva schizzi, lettere non spedite, poesie, riflessioni, e una mappa. Una vera mappa, con simboli e codici che all’inizio non capii. Seguendoli, scoprii che uno dei membri del gruppo aveva nascosto delle incisioni nella stessa tavola, usando un tipo di inchiostro che si rivela solo con la luce UV. Presi una torcia e la passai sul piano: comparvero nomi, date, persino frammenti di versi.

Era come se la tavola fosse un libro inciso, un pezzo di storia inciso nel legno. Ogni volta che mangiavo lì, ogni volta che ci scrivevo sopra o appoggiavo il computer, non potevo fare a meno di sentirmi parte di qualcosa di più grande. Non era solo un mobile: era memoria viva.

Alla fine, portai la scoperta a un museo storico locale. Dopo una lunga verifica, confermarono che quella tavola era unica. La volevano esporre. Ma io dissi di no.

“La tavola è nata per essere vissuta, non rinchiusa,” risposi.

E da allora, ogni mese, organizzo una cena per sette persone. Ognuna deve portare un’idea da condividere, un pensiero fuori dal coro, un sogno da liberare. E mentre i bicchieri tintinnano e le voci si incrociano, mi piace pensare che Ettore, da qualche parte, stia ancora ascoltando.