Il trillo improvviso del telefono squarciò il silenzio mattutino, spezzando la quiete della camera da letto. Con fatica, Marina riuscì a schiudere le palpebre pesanti e allungò una mano verso il comodino. Sullo schermo lampeggiava un nome familiare: “Zia Gianna”.
Il cuore le diede un sussulto. Era passato più di un anno dall’ultima volta che si erano sentite, dopo quella lite furiosa al compleanno della nonna.
— Pronto… — mormorò, con la voce roca per la gola secca.
— Marinella! Per carità, non riagganciare! — La voce di zia Gianna aveva un’insolita dolcezza. — So che le cose tra noi non sono state semplici, ma… io e tuo zio Piero passeremo da Torino la prossima settimana. Possiamo fermarci da te un paio di giorni?
Marina si rizzò a sedere, scacciando la sonnolenza con un rapido gesto della testa. Il ricordo di quel litigio si materializzò nitidamente davanti ai suoi occhi.
— Quando hai intenzione di farti una famiglia?! — tuonava allora zia Gianna, incurante degli sguardi altrui. — Alla tua età io avevo già due figli! E tu invece pensi solo al lavoro, come se fosse l’unica cosa che conta! Sei un’egoista! Tua nonna morirà senza vedere un pronipote!
Marina aveva tentato di rispondere, ma il nodo alla gola l’aveva bloccata. Ora, con il telefono ancora incollato all’orecchio, si costrinse a dire:
— Zia… io non vivo più a Torino. Mi sono trasferita.
— Cosa? E dove? — L’intonazione della zia tornò subito perentoria.
— A Bologna. Tre mesi fa.
Dall’altro capo della linea cadde un silenzio incredulo.
— E hai deliberatamente nascosto questa cosa a tua famiglia? — sbottò la zia. — Tua madre lo sa almeno?
— Certo che lo sa — rispose Marina, avvertendo la solita morsa di ansia serrarle lo stomaco. — Avevo bisogno di ricominciare da capo.
— Ah sì? — Zia Gianna sbuffò. — Va bene, ma sappi che passeremo comunque. Tuo zio Piero ha sempre voluto vedere Bologna. E anche tuo cugino Luca e sua moglie vogliono rivederti…
— Zia, no! — esclamò Marina, quasi gridando. — La casa è in ristrutturazione!
— Ma che sarà mai un po’ di polvere! Possiamo anche dormire per terra! — minimizzò la zia.
— No, davvero, non potete… — Marina si sentì sopraffatta. Ma la zia non la ascoltava più, già intenta a parlare con lo zio Piero. Poi, la linea cadde.
I giorni seguenti furono un’agonia. Marina conosceva troppo bene la testardaggine della zia: quando prendeva una decisione, nulla poteva farla desistere. Il telefono squillava senza sosta, ma lei rifiutava ogni chiamata.
Poi, accadde l’impensabile.
Un messaggio alle sette del mattino, di sabato: “Siamo sotto casa tua. Vieni ad aiutarci con i bagagli.”
Marina sentì il sangue gelarsi. Dovevano aver trovato il suo vecchio indirizzo. Le dita le tremarono mentre digitava: “Zia, te l’ho detto, non sono a Torino! Sono a Bologna!”
La risposta arrivò dopo pochi istanti, seguita da una chiamata furiosa.
— Ma dove diavolo sei?! Siamo qui ad aspettarti! — strillò la zia.
Poi, un rumore di pugni contro una porta.
— Apri subito! So che sei dentro!
Improvvisamente, una voce maschile sconosciuta ruppe il caos:
— Chi diavolo siete? Io vivo qui da sei mesi!
— Cosa?! — La zia sembrava sconvolta. — E Marina dov’è?!
— Non ne ho idea. E se non smettete di fare casino, chiamo la polizia!
La chiamata si interruppe di colpo.
Marina rimase seduta sul letto, il telefono ancora in mano, il cuore che martellava nel petto. Si immaginò la scena: la zia in piedi con le valigie davanti a un estraneo infuriato, lo zio Piero che cercava di calmarla, Luca e sua moglie che si scambiavano sguardi imbarazzati…
Non riaccese il telefono fino a sera. Trovò trentasei chiamate perse della zia, diciassette della madre e una valanga di messaggi.
Chiamò sua madre.
— Hai combinato un bel casino, eh? — sospirò lei, con stanchezza nella voce. — Tua zia è fuori di sé. Dice che l’hai ingannata di proposito.
— Mamma, io l’avevo avvertita di non venire, — rispose Marina a bassa voce. — Tu lo sai quanto mi soffoca.
La madre sospirò.
— Lo so. Ma, dopotutto, è famiglia.
— La famiglia non dovrebbe far male, — ribatté Marina. — Non voglio più sentirmi dire che sono sbagliata perché non seguo i loro schemi. Io sono io, e va bene così.
Ci fu un lungo silenzio.
— Hai ragione, — ammise infine sua madre. — E sai che c’è? Ti capisco più di quanto pensi. Ho sempre lasciato che tua zia decidesse per me, solo perché è più grande. Sai… da ragazza volevo studiare recitazione. Ma lei mi convinse che era una sciocchezza e che dovevo pensare a farmi una famiglia. Così mi sono sposata a diciannove anni.
— Te ne sei mai pentita?
— No, perché ho avuto te. Ma a volte mi chiedo… e se avessi provato?
Marina sorrise tra le lacrime.
— Mamma… non è mai troppo tardi.
— Dici?
— Certo. Ci sono scuole di teatro per adulti. Perché non provi?
— Oh, su, alla mia età…
— Mi hai sempre detto di non dire ‘è tardi’, ma ‘è ora’.
Qualche mese dopo, sua madre si iscrisse davvero a un corso di recitazione. Marina, nel frattempo, si era costruita una nuova vita a Bologna: un lavoro appassionante, nuovi amici, una casa tutta sua.
E poi c’era Gabriele.
Lo conobbe in ufficio. Alto, impacciato, con un sorriso gentile e un’adorazione smodata per i gatti. Non le chiese mai perché non fosse sposata o perché non avesse figli. Semplicemente, una sera le lasciò sulla scrivania un biscotto con un biglietto: “Hai saltato il pranzo. Il cervello ha bisogno di zuccheri.”
Pian piano, le loro vite si intrecciarono. Lunghe passeggiate, risate sotto la pioggia, cene improvvisate. Lui la prese per mano, senza mai cercare di cambiarla.
La loro storia crebbe senza pressioni, senza obblighi. Quando, dopo due anni, scoprirono che aspettavano un bambino, Marina capì che era proprio così che voleva vivere: libera di scegliere.
Non per accontentare gli altri. Non perché “era il momento giusto”. Ma perché lo desiderava davvero.
Zia Gianna, ovviamente, lo scoprì.
— Finalmente fai la cosa giusta! — esclamò al telefono. — Te l’avevo detto che il senso della vita è…
— Zia, — la interruppe dolcemente Marina. — Non sto vivendo “giusto”. Sto solo vivendo come voglio.
E riattaccò.
Ora, la sera, lei e Gabriele sedevano sul balcone, parlando di viaggi, sogni e di come avrebbero insegnato al loro bambino la cosa più importante di tutte:
Essere sé stessi. Sempre.