Ero immobile accanto alla finestra, le mani serrate, il respiro corto. Il battito del cuore era un tamburo impazzito nel silenzio della stanza. Ogni secondo si trascinava lento, scandito dal ticchettio ossessivo dell’orologio.
Era tardi. Troppo tardi.
Poi, i fari squarciarono l’oscurità.
Un’auto nera si fermò davanti al vialetto. Un brivido gelido mi percorse la schiena. Al volante c’era un uomo. Alto, sicuro, sconosciuto.
La portiera si aprì.
E lei scese.
Il mondo mi crollò addosso.
Sorrise. Un sorriso spontaneo, leggero. Troppo leggero. Si chinò al finestrino, disse qualcosa, e lui rise. Poi richiuse la portiera e si avviò verso casa, ignara della tempesta che mi ribolliva dentro.
Entrò senza esitazione, lasciando cadere la borsa sul tavolo.
— “Chi era?” — La mia voce era bassa, tagliente.
Si voltò, confusa. — “Cosa? Di chi parli?”
— “L’uomo in macchina.”
Sospirò, stanca. — “Marco, era Luca, il marito di Martina. Mi ha dato un passaggio. Devi sempre drammatizzare?”
Ma ormai non sentivo più niente. Il sangue mi martellava nelle tempie.
La mia mano si mosse prima che potessi fermarla.
Il suono dello schiaffo trafisse l’aria.
Lei barcollò all’indietro, portandosi una mano al viso. Un filo di sangue colò dal suo naso.
Nei suoi occhi non c’era rabbia. Né dolore. Solo paura.
E in quell’istante capii.
Avevo superato un confine da cui non si torna indietro.
Non urlò. Non pianse. Prese il cappotto e uscì.
La mattina dopo, un ufficiale giudiziario mi consegnò i documenti del divorzio.
— “Ho sopportato la tua gelosia,” disse fredda. “Ma la violenza? Mai.”
Le chiesi perdono. Giurai che era stato un momento di follia.
Non le importava.
Poi, la pugnalata finale: in tribunale dichiarò che ero stato aggressivo anche con nostro figlio.
Una menzogna.
Ma chi avrebbe creduto a me?
Il giudice decise senza esitazione.
Affidamento esclusivo a lei.
Io? Poche ore alla settimana. Una visita in un centro sorvegliato.
Niente più risvegli insieme. Niente più colazioni, giochi, favole della buonanotte.
Per sei mesi, vissi solo per quei momenti.
Quegli abbracci. Quei sorrisi spezzati.
Poi, un giorno, mio figlio mi disse qualcosa che mi distrusse.
Giocava con le macchinine, distratto, quando parlò.
— “Papà, ieri mamma non era a casa. È venuta una signora.”
Il cuore mi si fermò.
— “Che signora?”
Scrollò le spalle. — “Non lo so. Viene sempre quando la mamma esce.”
Il fiato mi mancò.
— “E dove va la mamma?”
Alzò gli occhi su di me. — “Non me lo dice.”
Un gelo mi strinse il petto.
Dovevo sapere.
Quando scoprii la verità, qualcosa dentro di me si ruppe.
Mentre io contavo i secondi per stare con mio figlio, lei lo lasciava con una sconosciuta.
Presi il telefono, le telefonai.
— “Perché lasci nostro figlio con una babysitter quando io sono qui?”
La sua voce era distante, fredda. — “Perché è più semplice così.”
— “Più semplice? Sono suo padre!”
Sospirò, impassibile. — “Marco, non è un tuo problema.”
Strinsi il telefono, la rabbia che ribolliva.
Cosa potevo fare? Tornare in tribunale? Lottare?
E se perdevo ancora?
Un solo errore.
Un solo momento.
E mi avevano strappato tutto.
Ma mio figlio?
Per lui combatterò.
Perché è l’unica cosa che mi resta.