Il Riscatto di Anna
— Non un passo oltre quell’ingresso, è chiaro? — sibilò lei, le unghie affondate nella superficie fredda del bancone.
— Come desidera, Ekaterina Pavlovna, — risposi con un sorriso placido, mentre dentro di me cresceva il brivido della vittoria imminente.
Il ristorante Cigno Bianco un tempo era il simbolo dell’eleganza sulla via principale della città. Ora, la sua gloria esisteva solo nei ricordi: colonne di marmo consunte, lampadari di cristallo che riflettevano bagliori opachi su tavoli quasi vuoti. I camerieri si muovevano come ombre silenziose, evitando accuratamente lo sguardo della padrona. I pochi clienti presenti parlavano sottovoce, quasi temessero di infrangere l’atmosfera decadente.
Uscendo, i miei tacchi rintoccavano sulla pietra, scandendo i secondi che mi separavano da un trionfo ormai inevitabile. Girato l’angolo, Artem mi aspettava con il motore acceso.
— Ancora la stessa, vero? — domandò, aprendomi la portiera.
— Peggio. Solo che stavolta il suo castello di carte sta crollando sotto i suoi occhi, — risposi, accomodandomi accanto a lui.
Tre anni fa, quella stessa donna dettava legge nella mia vita. Ricordo la mia ultima cena in quella casa: un piatto freddo davanti a me, mentre mio padre e Ekaterina ridevano in salotto.
— Anna, perché non hai ancora pulito dopo ieri? — la sua voce risuonò alle mie spalle.
— L’ho fatto, — risposi senza alzare lo sguardo. — Ho lavato tutto.
— Ah sì? E questa? — indicò un’impercettibile macchia sulla tovaglia.
— Ekaterina… basta, — mormorò stancamente mio padre.
— No! Una figlia deve imparare il rispetto. Non sono la serva di nessuno!
Ricordo i miei pugni serrati sotto il tavolo, la rabbia silenziosa che ribolliva dentro di me. Avevo ventidue anni e ancora subivo il suo disprezzo. E mio padre? Sempre spettatore, sempre distante.
Ma ora i ruoli si erano invertiti.
— Prepara i documenti, — dissi ad Artem, porgendogli una chiavetta USB. — È ora di mostrarle chi comanda davvero.
— Sei sicura? Potremmo aspettare ancora un po’, finché sarà in ginocchio sotto il peso dei debiti.
— No, voglio che lo scopra adesso. Voglio vedere il momento esatto in cui capirà di aver perso tutto.
Artem sorrise e avviò l’auto. Il ristorante svaniva nello specchietto retrovisore, la sua scritta consunta a malapena leggibile. Quello che Ekaterina ignorava era che, da sei mesi, attraverso una rete di società fantasma, ero diventata l’azionista di maggioranza del Cigno Bianco. Ogni suo affare fallito, ogni investitore sfumato, ogni ostacolo sulla sua strada… era opera mia.
E ora, la mossa finale.
— Ekaterina Pavlovna… c’è un problema… — Liza, la segretaria, apparve sulla soglia dell’ufficio, torcendosi le mani attorno a una cartellina.
— Che problema? — sbottò Ekaterina, senza sollevare lo sguardo dal laptop.
— L’investitore… quello che aspettavate. È qui. Vi aspetta nella sala VIP.
Per un attimo, Ekaterina restò immobile. Poi chiuse il computer con un gesto misurato. Aveva passato mesi a bussare a porte che non si aprivano, a inseguire finanziatori che la evitavano. Ora, finalmente, qualcuno era arrivato.
Si ricompose, passandosi una mano tra i capelli perfettamente acconciati.
— Portate un caffè e dite allo chef di preparare i migliori antipasti.
Con passi decisi, si diresse nella sala VIP, un tempo cuore pulsante del ristorante, ora avvolta in un silenzio elegante e irreale. Alla finestra, con un bicchiere in mano, sedeva qualcuno che non avrebbe mai immaginato di vedere lì.
— Tu?! — le sfuggì prima di riuscire a trattenersi.
Anna si voltò lentamente, un sorriso affilato sulle labbra.
— Accomodatevi, Ekaterina Pavlovna. Abbiamo molto di cui discutere.
— È uno scherzo? — balbettò Ekaterina, aggrappandosi allo schienale della sedia.
— L’investitore? — Anna aprì lentamente una cartellina di pelle nera, facendo scivolare alcuni documenti sul tavolo. — Sorpresa.
Liza entrò con il caffè, ma Ekaterina la scacciò con un gesto brusco.
— Evitate di sfogarvi sul personale, — osservò Anna, sorseggiando il suo caffè. — A proposito, gli stipendi sono in ritardo di un mese. I fornitori iniziano a farsi domande. E le ispezioni sanitarie… beh, diciamo che la situazione non è delle migliori.
Ekaterina impallidì.
— Hai… hai indagato su di me?
— Ho solo studiato il mio investimento, — rispose Anna, incrociando le gambe. — E devo dire che la situazione è piuttosto disastrosa: calo di incassi, staff in fuga, una reputazione che si sgretola… Potrei continuare.
Ekaterina rise, ma era una risata priva di allegria.
— E quindi? Vuoi distruggere quello che ho costruito?
— Al contrario, — il sorriso di Anna si fece ancora più glaciale. — Voglio salvarlo. Ma alle mie condizioni.
Spinse un contratto verso di lei.
— Nuovo accordo di gestione. Regole chiare, obblighi precisi. Niente più maltrattamenti al personale. Niente più trucchi nei conti. Niente più spese personali a carico dell’attività.
Ekaterina strinse i denti.
— E se rifiutassi?
— Allora ritirerò i fondi. E vedremo quanto durerà il Cigno Bianco senza un salvatore. Un mese? Forse meno.
La pioggia iniziò a tamburellare sui vetri, lenta e inesorabile.
Ekaterina fissò il documento. Poi, con le mani tremanti, prese la penna e firmò.
— E ora? — chiese con un filo di voce.
Anna si alzò, lisciandosi il tailleur con noncuranza.
— Ora lavoreremo insieme. Domani, ore dieci, riunione con lo staff. Non fate tardi… partner.
Ekaterina la osservò andarsene, sentendo il peso della sconfitta premere sulle spalle.
Il Cigno Bianco sarebbe sopravvissuto.
Ma non sarebbe mai più stato suo.