Di notte, il ragazzo nascose un cucciolo nel capanno; al mattino, i genitori rimasero senza parole.

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Durante la notte, il giovane aveva nascosto un cucciolo fragile nel vecchio capanno dietro la casa. Al mattino, i suoi genitori furono colti di sorpresa.

— Egor, cosa stai nascondendo? — la madre chiese, la sua voce tesa come una corda pronta a spezzarsi.

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— N-niente… — balbettò Egor, stringendo la giacca sul petto. Da sotto il tessuto, si sentiva un debole guaito.

— Lo sento. Che cos’hai lì sotto?

Egor si spostò di un passo indietro. I suoi occhi si riempirono di lacrime.

Come avrebbe potuto spiegare? Come raccontare a sua madre che non era riuscito a voltarsi dall’altra parte? Che lasciar quella creatura sola nel freddo non era una possibilità?

Tutto era iniziato il giorno prima. Tornava da scuola, seguendo il solito percorso: passava accanto ai garage dismessi, sfiorava un vecchio cantiere e accorciava per i bidoni della spazzatura. L’aria era già impregnata di crepuscolo, quella luce opaca che scende nei pomeriggi invernali. I rami spogli sembravano mani scheletriche, e la neve che si scioglieva cadeva lenta come fiocchi sospesi.

Egor rabbrividì e si alzò il cappuccio. Pochi minuti ancora, e sarebbe arrivato a casa — lì lo attendeva il calore, forse un piatto caldo. Ma proprio in quel momento lo sentì.

Un lamento, flebile e sommesso. Un pianto quasi impercettibile.

Si fermò, cercando di capire. Avrà sentito davvero qualcosa? O era solo il vento?

No, lo sentì di nuovo. Un suono straziante, vicino.

Si avvicinò con cautela ai cassonetti e, tra cartoni e sacchi rotti, vide una piccola figura scura. Due occhi luminosi lo guardavano da sotto una scatola. Un cucciolo.

Piccolissimo. Bagnato fradicio. Tremava come una foglia sotto la pioggia. Il suo pelo era appiccicato e congelato, una goccia pendeva dal suo naso.

— Ehi, piccolino… — Egor si inginocchiò e allungò la mano.

Il cucciolo non scappò. Anzi, gli toccò delicatamente la mano con il naso. Era caldo e umido. Poi, di nuovo, il pianto sommesso.

Era congelato. Affamato. Solo.

Il cuore di Egor si strinse. Lasciarlo lì? Impossibile. Non avrebbe superato la notte. Forse sarebbe stato investito da un’auto. O forse sarebbe morto di freddo.

Ma portarlo a casa? Quella, anche, era una scelta impossibile. Sua madre aveva detto chiaro e tondo: niente animali. Troppo complicato, l’appartamento era troppo piccolo. E anche suo padre era contrario: “Un cane non è un giocattolo,” ripeteva sempre.

Il cucciolo gli leccò la mano. Quella semplice fiducia bastò a fargli prendere una decisione.

— Vieni qui, piccolino — sussurrò Egor, aprendo la giacca per nasconderlo al suo interno.

Era leggero come una piuma, e il battito del suo cuore era delicato, simile a quello di un uccellino. Egor camminò velocemente verso casa, stringendolo a sé. La neve cadde più fitta, quasi a nascondere il suo segreto.

Il vecchio capanno! Era ancora lì, pieno di vecchi mobili e polvere. Suo padre aveva detto che prima o poi lo avrebbe demolito, ma non l’aveva mai fatto.

Egor entrò nel cortile senza farsi notare, aprendo la porta che scricchiolava. Dentro c’era l’odore del legno marcio e dell’umidità. Accese la torcia del telefono.

In un angolo c’era una vecchia poltrona. Ci mise sopra una coperta stropicciata e adagiarvi il cucciolo.

— Rimani qui, piccolino. Torno subito.

Corse in casa, il cuore che batteva forte. Sua madre lo aspettava sulla soglia.

— Dove sei stato? Non ti trovavo!

— Stavo giocando con gli altri — mentì Egor. — Posso mangiare veloce e poi fare i compiti?

Lei lo scrutò. Egor non riusciva a guardarla negli occhi.

Divorò la cena, ma la sua mente era al capanno. Al cucciolo. Tremava ancora? Aveva fame?

— Mamma, posso prendere un po’ di pane per lo spuntino?

— Va bene, ma non fare briciole.

Egor mise del pane in tasca. Rubò due salsicce. E chiese anche del latte.

— Latte? — sua madre lo guardò sorpresa. — Non ti piace nemmeno…

— Mi serve per… i compiti.

Lei non fece domande.

Con il cibo nascosto nelle tasche e una tazza di latte, Egor sgattaiolò fuori di nuovo.

Il capanno era buio e gelido. Il cucciolo lo riconobbe subito e iniziò a guaire piano.

— Shhh, piccolino… guarda cosa ti ho portato.

Versò il latte in un tappo di plastica, spezzettò il pane, mise le salsicce. Il cucciolo si buttò sul cibo con una fame disperata.

Egor lo guardava, seduto accanto a lui, con il cuore pieno di tenerezza.

— Devi avere un nome, sai? Come ti chiamerò?

Il cucciolo lo guardò, gli occhi pieni di fiducia. Aveva una macchia bianca sul petto, come una piccola cravatta.

— Smoking. Sei elegante come uno smoking! Ma ti chiamerò Smock.

Smock abbaiò piano, come se dicesse “mi piace”.

Egor sorrise. Avrebbe trovato una soluzione. Doveva farlo.