Dopo due mesi estenuanti passati lontano da casa, accanto al letto d’ospedale di mio padre, finalmente ero tornata. Desideravo solo una cosa: gettarmi nel mio letto e dormire per giorni.
Ma il destino aveva altri piani.
Appena varcata la soglia del mio appartamento, mi colpì un odore insolito. Dolce, quasi nauseante. Non era la mia solita lavanda, né il profumo di vaniglia del diffusore automatico. Scacciai l’impressione, pensando fosse solo l’effetto della lunga permanenza tra le pareti sterili dell’ospedale.
Ero stanca, svuotata. Ogni fibra del mio corpo gridava vendetta per le notti trascorse su una sedia rigida, osservando il petto di papà sollevarsi e abbassarsi al ritmo regolare dei macchinari.
Mamma aveva insistito affinché tornassi a casa: «Non puoi aiutare nessuno se crolli anche tu», mi disse, spingendomi quasi fuori dalla stanza.
Presi il primo volo disponibile. Quando arrivai, era ancora mattina.
Mio marito, Michele, mi accolse con un abbraccio caldo e mille domande. «Ti racconterò tutto dopo una doccia», risposi.
Ma anche in bagno, quel profumo dolciastro tornò a pungermi il naso. Decisi di chiederne conto a Michele più tardi, e mi infilai sotto l’acqua calda, sperando di lavare via la stanchezza, l’odore dell’ospedale e la tristezza accumulata.
Avvolta in un accappatoio, uscii dal bagno. Stavo andando in cucina quando sentii distintamente il rumore di una chiave che girava nella serratura.
Il cuore mi si gelò nel petto.
Michele era in cucina a preparare la colazione… allora chi stava entrando?
Presi la prima cosa che trovai: una statuetta di legno a forma di cavallo — come se potesse servirmi da difesa — e mi fermai davanti alla porta.
Entrò una donna. Giovane, splendida. Vestita come se stesse posando per una rivista di moda, con una borsa firmata che probabilmente valeva più del contenuto del mio armadio.
Non sembrava sorpresa, né intimidita. Sembrava… a casa sua.
Quando mi vide, si bloccò. I suoi occhi si strinsero in un’espressione di sospetto.
— Tu chi sei? — chiese con voce tagliente.
Mi strinsi l’accappatoio addosso, realizzando solo in quel momento quanto fossi esposta accanto alla sua perfezione scintillante.
— Scusa? Io vivo qui. E lei?
Mi osservò come si guarda un quadro astratto difficile da decifrare.
— Non ti ho mai vista prima.
— Sono stata fuori due mesi. Ora, mi dica: CHI le ha dato la chiave del MIO appartamento?
— Michele — rispose senza esitare. — Ha detto che potevo venire quando volevo. Di sentirmi a casa.
Fece un gesto ampio, come se stesse mostrando la sua proprietà.
Il pavimento sotto di me sembrò inclinarsi.
Michele. Mio marito. L’uomo a cui avevo scritto lettere ogni sera dall’ospedale. L’uomo che avevo difeso mille volte dalle insinuazioni di mia madre.
L’uomo che, in due mesi, era venuto a trovarmi solo due volte, sempre con scuse legate al lavoro.
Inspirai profondamente.
— Bene. Ora che la MOGLIE è tornata, direi che il tuo soggiorno è finito.
— Moglie? — le sue labbra lucide si curvarono in un’espressione sorpresa. — Strano. A me ha detto che era single. Beh… è stato un piacere.
Si voltò verso la porta, lasciando dietro di sé una scia di profumo costoso.
E d’un tratto tutto ebbe senso. Quel profumo… era lei. Lei era stata qui. Viveva qui, usava le mie cose, dormiva nel mio letto mentre io assistevo mio padre morente.
— Aspetta! — la mia voce uscì più forte di quanto volessi. — Vieni con me.
Entrammo in cucina.
Michele sorseggiava il caffè con la sua tazza preferita, quella che gli avevo regalato al nostro primo anniversario. Sembrava la scena di una normale mattina. Troppo normale.
La donna lo fissò.
— E questo chi è?
Michele sollevò lo sguardo, sorridendo con tranquillità.
— Oh! Una visita di prima mattina! Buongiorno, sono Michele. E lei?
Stavo per strangolarlo.
— La donna che ha appena aperto la nostra porta con una chiave! — dissi scandendo ogni parola.
Michele impallidì.
— Aspetta… cosa?
La donna lo guardava sbalordita.
— Non è lui… Non è il mio Michele… Ma… ma il MIO Michele mi ha dato una chiave! Ho persino rotto una mattonella in bagno con il mio profumo!
Mi voltai di scatto.
— Era quello l’odore che sentivo…
— Fammi vedere una foto, — dissi incrociando le braccia.
Lei esitò, poi tirò fuori il telefono. Dopo qualche secondo, ci mostrò lo schermo.
Mi cadde la mascella.
— Jacopo?! — urlai, guardando Michele. — Il tuo fratellino scansafatiche di ventiquattro anni?!
Quello che ci aveva chiesto soldi tre volte senza mai restituirli.
Michele si passò una mano sulla fronte.
— L’ho ospitato qui mentre ero via per lavoro. Gli ho dato una chiave. Gli ho detto di non toccare nulla. Evidentemente… ha mentito. A te. A lei.
La ragazza incrociò le braccia.
— Mi sembrava strano che un tipo così giovane vivesse in una casa così…
Strinsi i pugni.
— Mentre io stavo al capezzale di mio padre, tuo fratello usava casa nostra per fare colpo sulle ragazze?!
Michele annuì, col capo basso.
— Hai ragione. Non avrei dovuto fidarmi.
Presi il telefono.
— Jacopo? So tutto. E ho sporto denuncia per effrazione. Indovina il nome che ho fatto?
Silenzio dall’altro capo.
— C-cosa? — balbettò.
— Ah, e la ragazza che hai ingannato? Anche lei ti ha denunciato. Per truffa. Hai finto di essere il proprietario di un appartamento che non ti appartiene.
Michele mi fece cenno di attivare il vivavoce.
— E un’ultima cosa, — aggiunse lui. — I nostri genitori sapranno presto che razza di persona sei.
Panico dall’altro capo.
— No, vi prego! Non ditelo a loro! Posso rimediare, davvero! Vi prego!
Sorrisi freddamente.
— Hai molto da rimediare, Jacopo. Ma qui non tornerai mai più. Niente chiavi. Niente soldi. Niente seconde possibilità.
Chiusi la chiamata e mi voltai verso Michele.
— E ora, andiamo a cambiare le serrature.