Avevo letto tutto nei vecchi diari, nei suoi racconti spezzati. Ma trovarmi dentro la sua storia… era altro.

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Mentre ero sotto la doccia, una donna ha aperto la porta con la sua chiave ed è entrata nell’appartamento: sono rimasta scioccata quando ho scoperto chi fosse.

Era una mattina come tante. Acqua calda, schiuma profumata, il rumore ovattato della città che si sveglia. Mi ero appena insaponata i capelli quando ho sentito un suono metallico, secco. La serratura. Poi lo scatto della maniglia.

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Mi sono immobilizzata.
Non aspettavo nessuno. Nessuno avrebbe dovuto avere le chiavi.

— “C’è qualcuno?” — ha chiesto una voce femminile, indecisa, quasi colpevole.

Ho afferrato l’accappatoio e sono uscita dalla doccia gocciolante, il cuore che batteva troppo forte. Sono corsa nel corridoio, pronta a gridare, pronta a difendermi, pronta a tutto.

Quando l’ho vista, il tempo si è fermato.

Era mia madre.

Ma non mia madre di adesso — stanca, grigia, malata di silenzi e distanze. Era mia madre com’era venticinque anni fa.
Giovane, forte, con i capelli lunghi, gli occhi che brillavano e la postura da leonessa.

Indossava un cappotto che avevo visto solo in vecchie foto. E teneva in mano un mazzo di chiavi identico al mio.

Ci siamo fissate. Io, sgomenta. Lei, confusa.

— “Chi sei tu?” — mi ha chiesto.
— “Chi sei tu?” — ho risposto.

Il silenzio è durato qualche secondo. Poi ha sussurrato:
— “Questo è il mio appartamento.”

E lì ho capito.

O era un’allucinazione.
O qualcosa, nel tempo, nello spazio, in una crepa dimenticata della realtà, si era aperto.

— “Che anno è?” — le ho chiesto.
Lei ha sgranato gli occhi.
— “1999. Perché?”

Le ho preso la mano. Era calda. Reale. Non un sogno. Non un ricordo.

E poi, la domanda impossibile mi è uscita dalle labbra:
— “Hai appena lasciato papà, vero?”
Lei ha annuito lentamente.
— “Sono venuta qui… per ricominciare.”

Avevo letto tutto nei vecchi diari, nei suoi racconti spezzati. Ma trovarmi dentro la sua storia… era altro.

— “Io sono tua figlia. Ho ventinove anni. Questo appartamento lo hai lasciato a me, dopo…”

Non ho finito la frase. Lei aveva capito.

Nel suo sguardo ho visto mille domande, e nessuna era necessaria. Perché a volte non serve spiegare. Basta vedersi.

Abbiamo passato ore a parlare. Due donne, allo specchio. Una figlia che finalmente capiva. Una madre che finalmente veniva vista, non solo ricordata.

Poi, come era venuta, se n’è andata.

Non ha detto “addio”.
Ha solo sorriso. Quel sorriso che non avevo mai visto davvero.

La porta si è richiusa piano.

E io, ancora in accappatoio, ho guardato le gocce sul pavimento, l’odore dell’inverno che entrava dalla finestra, e ho pensato:

A volte il tempo torna indietro solo per curare ciò che sembrava perso per sempre.