La forza dell’amore: da una malattia rara alla medaglia d’oro olimpica

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Quando mio madre adottiva mi accolse, ero una bambina malata, considerata inutile da molti. Oggi sono una campionessa olimpica, eppure lei continua a credere di essere stata colei che ha ricevuto la più grande fortuna.

Ricorda sempre di aver avvertito tutto con un sussurro: non un segnale mistico, bensì una convinzione tranquilla e inesorabile che da qualche parte esisteva un bambino che aveva più bisogno di lei di chiunque altro al mondo. Quel bambino ero proprio io.

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La mia nascita fu segnata da una malattia polmonare tanto rara da non avere protocolli medici specifici. I miei genitori biologici scomparvero senza lasciare traccia mentre ero ancora in terapia intensiva, senza nome né messaggi, soltanto un vuoto.

Fu allora che entrò nella mia vita Kseniya Titova: insegnante, single, senza partner né un lavoro prestigioso, ma con un grande ardore nel cuore e un’agenda stracolma di post-it per ogni fase del percorso adottivo.

Molti le dissero che non avrei mai potuto avere una vita normale, che sarei rimasta fragile e che avrei trascorso più tempo in ospedale che a casa. Tuttavia, lei non si lasciò influenzare: non vedeva la malattia, ma una persona in cerca di affetto e di una casa. Osservò non diagnosi sfavorevoli, ma il mio potenziale. Quando mi prese per la prima volta tra le braccia, non percepì la mia debolezza, ma un futuro promettente.

“Ci furono notti in cui non riuscivo a respirare e lei rimaneva accanto a me fino all’alba, stringendomi la mano e invocando silenziosamente la mia salvezza.”

Non aveva un metodo già pronto né esperienza specifica, possedeva soltanto un cuore deciso a fare di me la sua famiglia.

Con il procedere degli anni, pur senza una guarigione completa, la mia condizione migliorò. Mia madre cercava sempre il parere di ogni medico o specialista disponibile per incrementare le mie possibilità. Ero meno forte degli altri bambini e mi ammalavo più frequentemente, ma lei non mi considerava fragile. Al contrario, mi insegnò a vivere e a combattere, e col tempo iniziai a vincere sul serio.

Durante le scuole medie scoprii la mia passione: l’atletica leggera. Tutto iniziò con semplici gare di velocità, dove correre rappresentava un senso di libertà mai provato prima. A ogni competizione, diventavo più forte, e i miei polmoni, sebbene imperfetti, miglioravano costantemente.

Mia madre divenne il mio più grande sostenitore. Pur non conoscendo nulla di sport, era presente a ogni gara, sotto la pioggia o il sole cocente, prendendosi giorni di ferie pur di vedermi correre.

  • Ho conquistato vittorie a livello scolastico.
  • Successivamente, ho brillato nelle competizioni provinciali.
  • Non ero soltanto veloce, ma anche determinata a superare ogni ostacolo.

All’università, il mondo sportivo cominciava a parlare di me: allenatori mi contattavano per entrare nelle loro squadre. Ma ero consapevole che la sfida importante era ancora da affrontare.

Non correvo per fama o gloria, ma per quella donna che aveva creduto in me quando tutti gli altri avevano rinunciato.

Alla fine, i sacrifici furono premiati. Ottenni una borsa di studio in un’università prestigiosa dedicata all’atletica. Lì non ero più solo una partecipante, ma una rivale di alto livello.

Il momento più incredibile arrivò quando, dopo anni di duro allenamento, dolore e sforzo, mi qualificai per le Olimpiadi. Rappresentavo non solo la mia università, ma tutto il Paese.

In quell’istante di gloria, sentii però che qualcosa mancava. Non si trattava di dimostrare qualcosa agli altri, ma soprattutto a mia madre. Desideravo che vedesse che non ero più la bambina fragile che aveva salvato, bensì una donna di cui essere fiera.

Ai piedi del podio, con la medaglia d’oro al collo, mentre l’inno nazionale risuonava e la folla applaudiva, cercai lei tra la gente. La scoprii: quella stessa donna che anni prima sedeva sui banchi delle medie guardava ora la sua figlia — la sua campionessa.

Comprendendo così un’importante verità: per tutto il tempo lei aveva creduto di essere stata la fortunata.

In realtà, la vera fortunata ero io. Mi era stata offerta un’opportunità che molti bambini con la mia diagnosi non avevano ricevuto. Lei non aveva fissato la malattia, ma una persona.

Il suo amore, la sua fede incrollabile e la sua perseveranza mi hanno trasformata in ciò che sono oggi.

Scendendo dal podio, mi avvicinai a lei e ci abbracciammo intensamente. I suoi occhi erano colmi di lacrime: non per la medaglia, ma per l’orgoglio verso me, verso la donna che ero diventata e ciò che avevo scelto di diventare.

In quel momento compresi che la vittoria più grande non è l’oro olimpico, bensì l’amore incondizionato.

Un amore di una donna che non si è mai lasciata intimorire dalle difficoltà, che mi ha scelto quando tutti mi avevano lasciata sola.

Oggi, ripensandoci, so che entrambe siamo state fortunate, poiché ci siamo trovate reciprocamente.

Se stai leggendo questo e ti senti perso, abbattuto, lontano dal tuo sogno, ricorda che talvolta basta incontrare una sola persona pronta a credere in te.

Un’ultima riflessione: non sottovalutare mai il potere di chi sceglie di amarti e sostenerti. Da lì può nascere una forza capace di superare ogni ostacolo, fino a raggiungere traguardi impensabili.