«Non pensi di essere un po’… troppo grande per quel tipo di costume da bagno?» disse mia nuora, lanciandomi uno sguardo veloce mentre sfilava il suo pareo con movimenti studiati. Era il terzo giorno della nostra vacanza in famiglia sulla costa ligure, e il caldo non era ancora riuscito a sciogliere l’ostilità che la ragazza sembrava nutrire nei miei confronti da quando era entrata nella nostra vita.
Il costume in questione? Un modello intero rosso fuoco, con un taglio elegante, ma moderno. Non volgare. Non provocante. Solo… vivo. Forse troppo vivo per una donna, come direbbe lei, “di una certa età”.
Mi voltai lentamente verso di lei. «Davvero?» chiesi con un sorriso che mi tremava appena. «E qual è, secondo te, l’età per essere invisibili?»
Lei rise. «Oh, non volevo offendere. Dico solo che certi costumi… fanno sembrare una donna più vecchia quando cerca di sembrare più giovane. Tutto qui.»
Quelle parole mi ferirono più di quanto volessi ammettere. Non tanto per il giudizio in sé — a settantadue anni avevo sentito ben di peggio — ma perché arrivavano da lei. Da quella ragazza che avevo cercato di accogliere come una figlia. Che avevo sostenuto nei suoi inizi con mio figlio, che avevo difeso anche quando altri in famiglia storcevano il naso per la sua freddezza, per la sua ambizione tagliente. Avevo creduto che un giorno avrebbe capito. Che ci saremmo trovate. E invece.
Quel giorno non risposi. Mi tuffai semplicemente in acqua e nuotai più a lungo del solito, come se il mare potesse lavare via l’umiliazione.
Ma mentre nuotavo, pensavo. E mentre pensavo, nasceva un’idea.
Il giorno successivo, prenotai una lezione di danza acquatica organizzata dall’hotel. Solo per divertirmi, avevo detto a mia nipote, la piccola Sara, che mi aveva fatto il tifo. Ma in realtà, avevo un piano.
A fine settimana, si sarebbe tenuto lo “Spettacolo d’Estate”, una piccola esibizione in spiaggia organizzata dal villaggio turistico, aperta a chiunque volesse partecipare. Un’occasione per ballare, cantare, esibirsi… o, nel mio caso, per lanciare un messaggio silenzioso e potente.
Il sabato sera, mentre il sole calava dietro la linea dell’orizzonte e la sabbia si tingeva d’oro, salii sulla pedana insieme ad altre cinque donne. Tutte oltre i sessanta. Tutte con costumi da bagno appariscenti, paillettes, gonne colorate, foulard nei capelli. Tutte con una storia. E tutte con la stessa voglia di dire al mondo: siamo ancora qui. E non abbiamo bisogno del vostro permesso per esserlo.
Ballammo una rumba semplice, ma carica di grinta. Il pubblico applaudì. I bambini ridevano. Gli uomini annuivano, le donne battevano le mani. Ed io? Io cercavo solo un volto.
La vidi: mia nuora, in piedi accanto a mio figlio, bocca leggermente aperta, viso congelato in un’espressione che non capivo del tutto.
Alla fine della serata, mentre tornavo alla sdraio, lei mi raggiunse.
«Non sapevo che avessi… questa energia. Ecco. Non ti facevo così… teatrale.»
La guardai. «È che non mi hai mai davvero guardata.»
Silenzio.
Poi, abbassò lo sguardo. «Forse hai ragione. E forse ho detto una sciocchezza, l’altro giorno.»
Sorrisi. «Hai detto una crudeltà. Ma le crudeltà si perdonano. Quando si capisce che fanno più male a chi le dice.»
Lei non rispose subito. Ma quando Sara le corse incontro per raccontarle quanto fossi stata “la nonna più forte e bella della spiaggia”, vidi qualcosa sciogliersi in lei.
Non diventammo migliori amiche dopo quella sera. Ma qualcosa cambiò. Un rispetto, forse. O almeno, la fine della guerra fredda.
E da allora, ogni estate, quando preparo la valigia, non dimentico mai il mio costume rosso.
Non per provocare.
Ma per ricordare — a me, e a chi guarda — che la bellezza non ha scadenza. E il coraggio di indossarla… nemmeno.