Era una domenica mattina come tante. Il caffè ancora fumava sul tavolo e il silenzio tra me e Davide era denso come panna montata andata a male. Da mesi mi sentivo come una pianta rinvasata in un vaso troppo stretto: crescevo, ma sbattevo contro i bordi.
Così, gliel’ho detto.
— Sto pensando seriamente di trasferirmi all’estero.
— Per cosa, una vacanza?
— No, per vivere. Per lavorare, cambiare aria. Per me.
Davide si irrigidì, posò la tazza con troppa forza.
— Non sei più una ragazzina, Martina. Hai un marito. Una casa.
— Lo so benissimo. È per questo che te lo sto dicendo.
— Se te ne vai, chiedo il divorzio.
Ecco, la minaccia.
Come se il matrimonio fosse una catena e non una scelta quotidiana.
Non risposi subito. Nei giorni successivi feci silenzio. Lui, invece, cominciò con le provocazioni:
“Vai pure, vediamo quanto resisti”,
“Chi pensi di essere?”,
“Queste fantasie ti passeranno”.
Ma non mi passarono.
Cominciai a organizzarmi in silenzio. Presi contatti con una vecchia amica a Lione, aggiornai il mio CV, feci colloqui via Zoom chiusa in bagno, come un’adolescente che nasconde un amore proibito.
Poi una mattina, senza pianti né urla, gli consegnai una busta. Dentro:
– la mia nuova offerta di lavoro
– il modulo precompilato per il divorzio
– un biglietto aereo per il 12 giugno, sola andata
— Non ti sto chiedendo il permesso. Sto solo informandoti.
Davide rimase in silenzio. Non tentò di fermarmi. Solo uno sguardo, duro e ferito, come chi perde una guerra che pensava di aver già vinto.
Il giorno della partenza pioveva. Mi accompagnò all’aeroporto sua sorella. Non portavo molto con me: un trolley, il passaporto, e una libertà ancora tutta da imparare.
Ma quando l’aereo si staccò dal suolo, non provai paura. Solo un’ondata di sollievo puro.
Nel primo messaggio che gli mandai da Lione scrissi:
“Hai chiesto il divorzio. Io ho scelto me. Spero che un giorno tu capisca la differenza.”
Da allora, non sono mai tornata indietro.
E, a essere sincera, non ho mai guardato davvero indietro.