Dietro mani rugose spesso si nasconde un racconto tanto potente da eclissare qualsiasi energia giovanile. È comune pensare che il carcere sia riservato a individui duri, audaci e spietati, dimenticando però che la forza si manifesta in molte forme. Questa narrazione non narra di crudeltà, ma di dignità che non si arrende neppure dietro le sbarre. È la dimostrazione che amore, ricordo e fede possono essere più resistenti di porte blindate e cancelli. Parla di una donna che non ha mai abbassato la guardia e ha vinto. La nonna che, in un solo istante, ha cambiato completamente l’ambiente intorno a sé, facendo tacere la camerata come solo davanti a qualcosa di sacro può accadere.
— Ehi, mammut! — sbottò un’altra detenuta, tatuata e con la voce sgarbata, sputando per terra. — Qui non ti serve una cella, ma un hospice!
La nonna abbassò timidamene lo sguardo. Indossava un vecchio cardigan grigio e le sue mani erano strettamente intrecciate. Aveva settantacinque anni. Era stata condannata per aver rubato del pane in un supermercato, un gesto dettato dall’amore nei confronti del nipote orfano di genitori morti in un incidente stradale. La sentenza fu severa: la legge non fa sconti a nessuno.
— Questa è follia — commentò con sarcasmo una compagnia di brande. — Ma che te ne fai di un ragazzo? Tanto lo tirerai fuori da un orfanotrofio né più né meno.
Tuttavia, lei rimaneva in silenzio. Ogni notte, tirava fuori da sotto il cuscino una vecchia foto che ritraeva il nipote con un buffo cappello da coniglio, e leggeva ad alta voce fiabe come se lui fosse accanto a lei.
- Le detenute spesso la deridevano: «Fai una minestra, no? Il nipote sta sotto il letto?»
Una notte, una delle reclusa si svegliò con una strana sensazione: c’era un silenzio insolito in cella. La nonna stava seduta sul letto ed intonava dolcemente una ninna nanna.
— Nonna, cosa stai facendo? — chiese una giovane con un ghigno.
— È il compleanno di Vladik, — rispose lei con calma. — Ogni anno gli canto una canzone per la buona notte.
Ma quella mattina la nonna non si risvegliò.
Riposava, come se si fosse addormentata, stringendo ancora in mano la foto. Sul viso aveva un sorriso pacifico.
La guardia, vedendo la scena, divenne pallida. Accanto al corpo giaceva un piccolo pacchetto: un guantino ricamato a mano, delicato e solitario, con la scritta “Per la nonna”.
— Chi glielo ha mandato? — chiese una delle detenute.
— Nessuno, — rispose la guardia. — La sera precedente nessuno era presente al posto di guardia. Era semplicemente lì, davanti alla porta.
Il silenzio calò improvviso nella cella, e da quel momento nessuna risata si udì più.
Le donne guardarono la nonna e compresero che non era soltanto vecchiaia quella che avevano davanti, ma un cuore che non aveva mai smesso di amare, nemmeno dietro le sbarre.
Dopo la sua scomparsa, si percepì un cambiamento nell’aria della cella. Le detenute, solitamente forti e volgari, adesso parlavano con toni più bassi. La foto del ragazzo, quella che la nonna aveva sempre tenuto vicina, rimase sul suo letto e nessuno osò toccarla. Accanto a lei, il guantino custodito come un tesoro fece stringere la gola anche alla più dura di loro: Nadia, una delle più coriacee, che in origine si prendeva gioco della nonna, ora guardava la foto e mormorava a se stessa.
— Perché ti serve un bambino? — diceva a voce alta. — Ora vorrei che qualcuno mi facesse un guantino così…
Il giorno dopo, seduta vicino alla finestra, Nadia prese dei fili e iniziò a lavorare a maglia. Per la prima volta dopo anni, tornò con la mente all’infanzia trascorsa con la nonna. Le sue dita tremavano, non per il freddo, ma spinta da sentimenti nuovi: vergogna e voglia di riparare.
- Qualche giorno più tardi, una delle ragazze chiese alla sorvegliante come stesse il nipote della nonna.
- Scoprirono che il ragazzo era davvero in un orfanotrofio: silenzioso, chiuso in sé stesso, che chiedeva soltanto un po’ di solitudine il giorno del compleanno.
- Ogni mese, la cella iniziò a ricevere pacchi anonimi dall’orfanotrofio, contenenti qualcosa di semplice: un libro, un guantino, una tavoletta di cioccolato. Tutti firmati con solo due parole: “Dalla nonna”.
Un giorno arrivò una lettera, scritta con calligrafia infantile:
«Grazie. Sapevo che mia nonna non mi avrebbe dimenticato. Ora credo che, anche se non è più con me, resta vicino. Prometto che diventerò una brava persona, proprio come lei».
La sorvegliante lesse la lettera ad alta voce. In quell’istante parve che un’ombra leggera attraversasse la cella, quasi impercettibile. Ogni donna alzò lo sguardo, senza parole, con la certezza che fosse la nonna — quella nonna determinate e gentile, con occhi pieni di bontà — a camminare ancora tra loro.
La primavera giunse nella colonia silenziosamente, filtrando attraverso una finestra rotta e le gocce di pioggia sul davanzale. I cambiamenti erano impalpabili ma profondi.
La tradizione riprese: Lena, che una volta rideva più forte di tutte, leggeva fiabe ad alta voce.
— «E così il piccolo ragazzo capì che l’amore è ciò che resta con te per sempre, anche se sei rimasto solo…» — concluse, chiudendo il libro. — «Bene, adesso chi vuole scrivere al ragazzo?»
— Io, — rispose Olya, mostrando un tatuaggio nuovo sulla spalla: un guantino ricamato, disegnato dal tatuatore che non le aveva chiesto spiegazioni, ma aveva detto solo: «Lo faccio solo se è fatto col cuore».
— Scrivi che sta facendo tutto bene, — aggiunse Nadia, — e che la nonna è orgogliosa di lui. Non a nome della nonna, ma da parte nostra. Chi lo capisce, è con lui.
Le lettere ora venivano spedite ogni settimana, spontaneamente, non per imposizione. Perché per la prima volta in lungo tempo, ognuna di loro voleva sentirsi importante e desiderata, proprio come la nonna.
Dopo sei mesi, arrivò una visita di controllo alla colonia. La sorpresa dell’ispettore fu grande quando vide l’angolo dedicato alla lettura di fiabe realizzato nella cella femminile.
— Un angolo libri? In una cella femminile? — chiese stupita.
— Sì, — confermò la guardia. — Lo abbiamo organizzato da soli, per far sentire la casa come quella della nonna.
L’autunno portò una bella notizia: Natasha, una delle donne, ottenne la libertà anticipata. Sua sorella la accolse alla stazione ferroviaria, dove Natasha stringeva tra le mani una borsa e, nel taschino, il guantino bambino appartenuto alla nonna, regalo che aveva chiesto di conservare nel momento in cui l’avevano portata via dalla cella.
— Perché lo tieni? — chiese lei.
— È un promemoria, — rispose Natasha. — Ricorda che puoi essere fragile ma anche forte. Che si può essere condannati senza essere persi. E che l’amore può incendiare persino le mura della prigione.
Intanto, in un orfanotrofio, Vladik aprì di nuovo una lettera. Dentro c’era una cartolina disegnata a mano, con una casa, un libro sul tavolo e una sciarpa su una sedia.
«Non sei solo. Hai una squadra intera di allievi della nonna che ti sostengono. Vivi in modo che lei possa sorridere».
Alzò gli occhi verso la finestra e sussurrò:
— Vi sento. Grazie.
Due anni dopo, il ragazzo viveva in una famiglia adottiva, accolto da una donna che era stata detenuta: Natasha, colei che una volta si era presa gioco della nonna ma che ora custodiva il guantino come un tesoro sacro.
— Siamo simili, — gli disse il primo giorno. — Siamo state entrambe salvate dalla bontà di qualcuno. Ora tocca a noi fare lo stesso.
Lui annuì in silenzio e, per la prima volta da molto tempo, sorrise.
Quando Vlad entrò a scuola, durante una lezione di composizione su un eroe scrisse quanto segue:
«La mia eroina è la nonna. Era in prigione per aver rubato del pane per me. Ma non si è mai indurita. Portava gentilezza dove non c’era. Anche quando non c’era più, è rimasta. La sento vicino ogni giorno: quando leggo, rido e credo. Lei è come un guantino: scalda anche quando nessuno la vede».
L’insegnante si commosse leggendo queste parole e chiese delicatamente se potevano pubblicarle nel giornalino scolastico.
— Certo, — rispose Vladik. — Devono sapere che anche nei luoghi più freddi si può incontrare un cuore caldo.
Ancora oggi, nelle menti di molte donne che condivisero la cella, si ode una voce dolce, una ninna nanna che attraversa il tempo e lo spazio, filtrando tra le sbarre:
«Dormi, mio caro… chiudi gli occhi…»
Con essa resta un sentimento indelebile: non paura, vergogna o rabbia, ma una luce, il segno eterno di quella nonna speciale.