La madre gettò la figlia nella spazzatura e non riusciva nemmeno a immaginare come la figlia l’avrebbe ringraziata.

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Yulka aveva iniziato a prendere pezzi di vita dal cortile. Ogni oggetto che trovava gettato via sembrava un frammento di una vita migliore, una vita che non le era stata concessa. I vestiti abbandonati, i piatti di ceramica, le scarpe che sembravano appartenere a qualcuno che aveva vissuto senza dolore, erano diventati per lei simboli di speranza. Non c’era altro da fare, in quella città che non sembrava offrire altro se non l’indifferenza.

Un giorno, mentre stava raccogliendo una tazza di porcellana, vide una donna anziana camminare verso il cassonetto. Aveva uno sguardo triste e le mani tremanti, come se fosse alla ricerca di qualcosa che non avrebbe mai trovato. Yulka si avvicinò e, senza pensarci, la fermò.

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“Posso aiutarti?” chiese la ragazza.

La donna la guardò per un momento, incerta. Poi, lentamente, rispose: “Ho bisogno di qualcosa che mi faccia sentire meno sola.”

“Mi chiamo Yulka,” disse la ragazza, sorridendo per la prima volta da tempo. “Voglio che tu sappia che non sei sola.”

La donna le sorrise debolmente, ma Yulka vide nei suoi occhi una scintilla di gratitudine che non si aspettava. “Grazie,” sussurrò, e poi si allontanò, tenendo la tazza tra le mani come fosse un tesoro.

Quella scena rimase con Yulka per molto tempo. Sentiva una connessione che non aveva mai provato prima. In quella città, tra la spazzatura e i rifiuti, stava scoprendo un nuovo modo di vivere, un modo che forse, un giorno, l’avrebbe portata fuori dalla solitudine che l’aveva segnata da sempre.

E così, giorno dopo giorno, Yulka raccoglieva non solo oggetti, ma anche piccole scintille di umanità, come se stesse cercando un posto dove davvero appartenere.