Non sei dei nostri: una storia di famiglia, dolore e rinascita

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«Non osare toccare il cibo per cui spendo i miei soldi! Non sei una di noi e mai lo sarai!» — furono le parole dure che la suocera rivolse alla figlia.

Vera Timofeevna, con tono irritato, frugava nel frigorifero, rovesciandone il contenuto come se cercasse qualcosa di smarrito ma in realtà stava puntando a un pretesto per sfogare un rancore accumulato da anni.

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«Che storia è mai questa? Ricordo bene di aver comprato quei formaggini dolci ieri! Dove sono finiti?» borbottava infastidita.

«Oh… quelli… li ho mangiati io ieri, non sapevo fossero vostri» rispose Natalja a bassa voce, con aria colpevole, mentre finiva un panino con il formaggio.

La bambina di dieci anni, seduta a tavola, si stringeva su se stessa come se sentisse avvicinarsi una tempesta. I suoi grandi occhi azzurri, illuminati da innocenza, ricordavano troppo da vicino alla suocera Vera la sua defunta nuora, moglie del primo marito del padre di Marina, e rappresentavano quindi un doloroso ricordo di un passato estraneo. Le due trecce ben tirate davano al suo viso un aspetto simile a una maschera di bambola—bella ma lontana dall’ideale delle nipoti che Vera Timofeevna avrebbe voluto avere.

«Come hai potuto mangiarli?» si girò bruscamente verso di lei, fissandola intensamente. «Quante volte devo ripeterti di chiedere prima cosa puoi prendere e cosa no?»

«Mamma diceva di non chiedere, così che non vi dispiacesse…» replicò Natalja con timidezza. «Mi dispiace. Forse dovrei mettere le vostre cose su uno scaffale a parte? Io lì non toccherei niente…»

«Uno scaffale? E cosa dovrei diventare, un’emarginata nella casa di mio figlio? Questa è la sua proprietà, per tua informazione! E tu non sei nessuno. Sei un’estranea. E lo sarai per sempre. Niente di ciò che compro deve finire nelle tue mani. Ai miei nipoti darei tutto, ma a te non permetterò nemmeno di prendere una caramella dalla mia tavola.»

Ogni parola era un colpo mirato. Ma perché odiare così tanto una bambina innocente? Vera Timofeevna stessa non riusciva a darsi una risposta. Forse perché il figlio aveva scelto una donna “sbagliata”: una non più giovane, con un bambino al seguito. «Quella là con il bimbo» la chiamava mentalmente. Riteneva che il figlio meritasse di meglio.

«Tesoro, ci sono tante giovani belle ragazze intorno a noi. Perché hai deciso di legarti a qualcuno già segnato?» gli chiedeva spesso.

«Non osare parlare così di Marina, mamma. Io la amo. E amo anche Natalja. Come si fa a non amare una bambina così adorabile? Stai tranquilla, so quello che sto facendo. È la mia scelta» rispondeva Semën.

Ora però taciava, mentre la madre continuava a premere.

Un leggero colpo di tosse proveniente dal corridoio fece sobbalzare Vera Timofeevna. Si girò di scatto e vide Marina sulla porta. Natalja diventò pallida, temeva che la madre potesse udire quegli scambi aspri. Anche se Vera appariva una furia, Natalja provava pena per lei. Un tempo il frigorifero sembrava un territorio senza confini. Ora, dopo mesi trascorsi assieme, le regole di Vera erano diventate legge e Natalja non riusciva a obbedirvi senza perdere dignità.

«Mamma, andiamo in parco? C’è un posto che voglio mostrarti» propose Natalja nel tentativo di cambiare argomento.

«Certo, tesoro. Preparami che vado a farmi del tè.»

La bambina percepì che la madre desiderava restare sola con la suocera. Sapeva che gli adulti avevano bisogno di parlarsi e, abbassando lo sguardo, tacque e si allontanò.

«Non ti sono arrabbiata» sussurrò mentre passava accanto a Vera.

Marina osservava la suocera con occhi gelidi e sbigottiti. Come si poteva rivolgere parole tanto umilianti a una creatura innocente? Anche se non appartenesse alla famiglia.

«Perché mi guardi così?» tuonò Vera. «Avrò detto qualcosa di sbagliato? Tuo figlio ci ospita, ma questo non rende Natalja parte della nostra famiglia. Lei rimarrà un’estranea. E tu sai bene che Sema finge solo di amarla. Non è un sentimento vero».

«Non chiedevo amore da te o da Semën. Solo rispetto. E quello non ce l’ho ricevuto. Sembra che tu stia esagerando la tua permanenza qui: hai detto un mese, ma siamo al terzo. Non ho nulla in contrario agli ospiti, ma ci sono dei limiti» replicò Marina.

«Allora vuoi cacciarmi? Per aver detto la verità? Come osi! Aspetta Semën, te lo racconterò tutto. Questa è casa sua, lui decide. E tu niente comandi, o finirai lontana da qui insieme a tua figlia. Farò di tutto per riuscirci».

La rabbia traspariva in ogni parola di Vera, che rispondeva in modo arrogante a anni di accoglienza e pazienza da parte di Marina. Quando Semën aveva detto che la madre avrebbe vissuto da loro solo temporaneamente, per seguire dei corsi, Marina aveva visto quello come un’opportunità per costruire finalmente un rapporto cordiale, ma si era rivelato un passo indietro, doloroso, in un mare di relazioni familiari fredde dove l’amore era raro ospite.

Decisa che ulteriori discussioni non avrebbero cambiato nulla, Marina raccolse la borsa, chiamò Natalja e si diresse con lei al parco dei divertimenti. Dopo un pranzo in un bar e una passeggiata nel centro commerciale, sperava di incontrare Semën a lavoro e creare un’atmosfera più neutra.

«Ancora un litigio con tua madre?» chiese lui stanco.

Marina raccontò con dolcezza ma sincerità quanto fosse successo al mattino.

«Semën, tua madre ha superato ogni limite. Come può dire certe cose a un bambino? È assurdo. Natalja cosa ha fatto? Ha mangiato i formaggini e ti sembra il caso di punirla? Lei stessa ha proposto di tenere separati i suoi prodotti, ma tua madre l’ha umiliata e insultata. Io non le proibisco nulla; le concedo libertà. Perché non può almeno mostrare un minimo di rispetto?»

Semën si toccò la fronte pensieroso.

«Marin, non agitarti. Per lei è dura accettare Natalja. Anche per me non è semplice, come pensi? Lei è comunque un’estranea.»

Marina lo guardò come se vedesse per la prima volta il vero Semën. In passato affermava che Natalja era diventata come una figlia. Che era pronto a essere un padre. Che amava entrambe. Ora sembrava cambiato, lentamente ma in modo irreversibile sotto l’influenza materna.

Tre anni dopo, Semën mostrava un uomo differente, distante dal marito che aveva sposato.
La presenza di Natalja era fonte di tensioni e gelosie.
Marina intravide la definitiva trasformazione di Semën in un uomo freddo e crudele.

«Cosa vuoi dire, Semën? Non parlavi così prima…» chiese Marina confusa, seduti al tavolo di un bar immersi in una calda giornata quasi estiva. Natalja pattinava sul ghiaccio lasciando scie argentee, mentre loro parlavano tra piante, profumo di caffè e risate lontane di altri bambini.

«Sai bene cosa intendo» rispose lui distogliendo lo sguardo. «Passi troppo tempo con Natalja, io invece resto ai margini. Mi avevi promesso controlli per potermi dare un figlio, ma invece solo «Natalja è malata», «Natalja ha gare». Non ti sembra che la tua vita ora ruoti attorno a lei?»

Quelle parole, pesanti e velenose come gocce di mercurio, riempirono la stanza di un silenzio carico di dolore.

Marina cercava disperatamente di essere una moglie perfetta, una madre premurosa, di compiacere tutti. A volte sacrificava tempo con la figlia per star più con Semën. E ora si sentiva tradita.

«È ingiusto» sussurrò. «Ho sempre cercato equilibrio. Se ti senti trascurato, perché non me l’hai mai detto prima? Perché ora è una colpa?»

«Perché anche io sono stanco. E tua madre ha ragione: prima o poi devi capire che Natalja non è nostra figlia. Sarà difficile quando avremo un bambino nostro.»

Quelle frasi erano come un colpo secco su un vetro già incrinato. Marina sentì un gelo interno aumentare.

«Quindi appoggi la tua mamma? Credete sia giusto dire a una bambina che è estranea?»

«Non trovo nulla di sconvolgente nel fatto che mamma dica la verità. Natalja è abbastanza grande per capire la sua posizione».

«Allora oggi stesso prepareremo le nostre cose e ce ne andremo».

Semën fece una smorfia:

«Tutta colpa di questa ragazzina? Non vedi che crescerà, partirà per studiare, si dimenticherà… Tu resterai qui, e chi ti accoglierà?»

Marina si alzò lentamente, rendendosi conto finalmente che quell’uomo non era più il marito che aveva sposato. Quello seduto davanti a lei era uno sconosciuto, duro e freddo, che perdeva la sua identità più che trasformarsi.

«Se nessuno mi accoglie, questa è la mia sorte» disse con voce ferma. Non c’era né rabbia né dolore, solo una risolutezza distaccata.

La discussione fece perdere le staffe a Semën, che sperava nella sua ragionevolezza ma, senza attendere risposta, se ne andò al bar con gli amici «per distrarsi».

Marina decise di non aspettare il suo ritorno. Sapeva che più tempo passava, più difficile sarebbe stato prendere una decisione. Finché Vera Timofeevna non era in casa, lei e Natalja raccolsero in fretta le cose e lasciarono l’appartamento. Per fortuna, Natalja era in vacanza e anche Marina aveva ferie. I soldi del viaggio erano stati messi da parte prima del matrimonio e permisero un trasferimento agevole in campagna, dalla madre di Marina.

Zhanna Nikolaevna le accolse a braccia aperte. Non aveva mai approvato la scelta della figlia, ma era rimasta in silenzio finché non era diventato insopportabile.

«Marina, non ti preoccupare. Se Semën si è comportato così, hai fatto bene. Cosa potevi aspettarti da uno che vi ha voltato le spalle così facilmente?» disse porgendole una tazza di tè caldo. «Può provare a riconquistarti, ma rifletti bene: ne vale la pena? Questi toni si ripeteranno e potrebbero peggiorare.»

Marina annuì in silenzio, consapevole che la madre aveva ragione. Semën era cambiato. La sua gelosia e il rifiuto di Natalja erano segnali che la bambina sarebbe presto divenuta bersaglio di continue critiche ingiuste.

Qualche giorno dopo avvenne una conversazione che doveva essere definitiva: Semën telefonò.

«Mia madre è andata via. L’appartamento è libero. Torna, Marina. Ho esagerato. Ero stanco delle liti continue. Scusami. Non penso male di Natalja, solo che è troppo presente nelle nostre vite. Dedica tempo alla tua salute, avrai un figlio per me e tutto andrà meglio.»

Marina ascoltò attentamente e poi rispose:

«Ho fatto tutto il possibile per avere un bambino: controlli, esami. E tu? Quando ti sei curato l’ultima volta? Volevi un figlio ma non hai nemmeno mosso un dito. Ora è tardi. Ho deciso: ci separiamo. Non voglio che mia figlia si senta estranea. Te l’ho detto fin dall’inizio. Finché tua madre non ha iniziato a influenzarti, andava tutto bene.»

«Che c’entra mia madre?» gridò Semën. «Quando guardo Natalja, vedo una estranea. Ho provato a legare con lei, ma non riesco a superare me stesso. I miei amici si vantano dei loro figli, io no. Mi vergogno. Forse la lascerai dalla nonna? Puoi ancora avere un figlio nuovo.»

Marina inspirò profondamente, mantenendo la calma nonostante tutto ribollisse dentro di lei.

«Voglio il divorzio. L’appartamento è stato comprato in comune. Tua madre crede che sia solo tuo, ma io ho investito molte risorse. Non lascerò tutto a te né sarò vittima di nuovo.»

Semën rise amaramente, il suo sorriso era privo di gioia, solo dolore e risentimento.

«Ecco come stanno le cose? Sei mercenaria. Sapevo che eri una scelta calcolata, ma volevo convincermi di aver sbagliato. Invece no. Volevi soltanto la metà della casa. Come si dice? Mammina aveva ragione — vuoi portarmi via tutto.»

«Ancora la mamma…»

Marina serrò le labbra. Parole vuote. Lei e Semën erano diventati due sconosciuti. Tra loro un abisso invalicabile, non colmabile con promesse. Lei aveva fatto la sua scelta.

Dopo quella chiamata, Semën insisteva nel telefonarle, chiedendo perdono, assicurando che avrebbe cambiato. Ma Marina non ascoltava più. Le promesse infrante diventano solo rumore. Sapeva bene: una volta che un vaso si rompe, anche incollato perfettamente, rimane segnato e si frantuma di nuovo al primo colpo.

Semën soffriva per la perdita, era un’abitudine, un sostegno, una dipendenza, ma non amore. L’amore non permette di umiliare il figlio degli altri. L’amore non pretende che una donna rinunci alla figlia per una nuova famiglia.

Quando il divorzio fu avviato, Marina assunse un avvocato per evitare un ulteriore confronto con l’ex marito e i suoi occhi imploranti. Voleva un nuovo inizio.

Dalla vendita dell’appartamento acquistò un piccolo due locali, con pareti vecchie e pavimenti scricchiolanti, ma era casa sua. Sapeva che con il tempo avrebbe trasformato quel luogo nel suo rifugio, costruendo una felicità autentica, lontana da illusioni.

Natalja iniziò la scuola mostrando progressi evidenti e un nuovo entusiasmo. Guardandola, Marina a volte vedeva una domanda nei suoi occhi: «Sei scappata per colpa mia?» Ma sempre rispondeva con fermezza:

«Non pensarci. Non è colpa tua. Lo capirai in futuro. Ora, vivi e sii felice.»

Dopo qualche mese dal divorzio, Semën si risposò con una donna che pareva aspettare questa occasione da tempo. Marina non nutrì rancore, solo la sensazione di liberazione. Ringraziava il destino di averla strappata a quei legami tossici. Ironia del destino: fu proprio l’intervento di Vera Timofeevna a segnare la svolta decisiva, aiutandola a vedere l’uomo per quello che realmente era.

Ora Marina viveva in modo consapevole, senza illusioni né ingenuità, desiderando un partner forte, capace di prendere decisioni proprie e amarla, ma anche accettare sua figlia.

Forse era sola, ma libera. E questo era ciò che contava di più.