Tatiana si risvegliò sul pavimento di legno, freddo e polveroso, con la testa che pulsava e il cuore che batteva all’impazzata. La stanza era immersa in un silenzio ovattato. Murat le leccava la mano, inquieto.
Un’immagine sbiadita le affiorò alla mente: un ragazzo. Occhi chiari. Un nome sulle labbra. Mitya.
Scattò a sedere. Mitya. No, impossibile. Era morto. Morto da diciassette anni. Bruciato in quell’incendio, in quel maledetto ospedale dove tutto era cominciato e finito.
Si alzò barcollando. La porta era aperta. Una presenza la aspettava. La sentiva respirare. Appena varcata la soglia, un’ondata di ricordi seppelliti la travolse. Un tempo prima della cecità. Un amore breve, luminoso, spezzato. Un figlio perso. Un corpo mai trovato.
— Hai bisogno di aiuto? — sussurrò con voce incerta.
— Scusami… — disse lui. — Non volevo… metterti in difficoltà. Mi chiamo… Mitya, credo. Ma non so chi sono veramente. Solo che ti conosco. Lo so. Dal primo momento in cui ti ho vista. O sentita.
Tatiana sentì le ginocchia cedere. Si aggrappò allo stipite.
Mitya.
No. Era solo una coincidenza. O uno scherzo crudele del destino. Ma quella voce, quel respiro, quel ritmo nel cuore — era lo stesso.
— Quando ti sei fatto male? — domandò, cercando di concentrarsi.
— Sei mesi fa. Un incidente. Trauma cranico. I dottori dicono che è un miracolo se sono vivo. Non ricordo nulla prima del risveglio. Solo… una sensazione. Come se qualcuno mi stesse aspettando.
Tatiana si inginocchiò davanti a lui. Lo toccò. Le sue mani scivolarono sul volto, come se stessero leggendo un testo in braille. La forma del mento. La cicatrice sulla tempia. La piega delle labbra. E poi, gli occhi.
Uguali.
Impossibili.
Lacrime le scesero senza chiedere il permesso.
— Tu sei morto… — sussurrò.
— Forse sì. Ma sono anche qui.
Il giorno passò in un lampo. Tatiana non parlava. Preparava tisane, fasciava ferite invisibili, e tremava ogni volta che lui le diceva “grazie”.
Quella notte non dormì. Nel sogno, rivide l’ospedale. Il fuoco. Il fumo. E la figura che trascinava via un piccolo corpo. Non il suo.
Si svegliò urlando.
Capì.
Le avevano mentito. Avevano detto che suo figlio era morto. Ma non era vero. Era stato preso. Portato via. Usato. Forse da quella stessa donna tornata un anno prima con richieste di erbe, e ora ritornata con un uomo “da sistemare”. Forse era tutto legato. Forse Mitya era stato usato come pedina per qualche sperimentazione medica. Forse era sopravvissuto… ma al prezzo della memoria.
La mattina seguente, Tatiana preparò una piccola sacca. Murat osservava in silenzio.
— Dove andiamo? — chiese Mitya, con un sorriso incerto.
Tatiana si voltò verso di lui, il volto segnato ma deciso.
— A cercare chi ti ha rubato la vita. E a prenderla indietro. Insieme.