Quando mia suocera ha scoperto che avremmo comprato un appartamento, ha portato mio figlio a parlare. Quello che è successo dopo mi ha sconvolto nel profondo dell’anima.

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Quando mia suocera, la signora Luciana, scoprì che stavamo per comprare un appartamento, portò mio marito Paolo da parte per parlare. Quello che accadde dopo mi colpì profondamente. Non tanto per le parole. Ma per il silenzio che le seguì.

Erano mesi che io e Paolo risparmiavamo centesimo su centesimo. Io lavoravo come project manager per una multinazionale francese e guadagnavo bene. Paolo era impiegato in un’officina, bravo nel suo mestiere ma sottopagato. Nonostante ciò, non c’era competizione tra noi: avevamo sempre condiviso tutto.

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La nostra regola d’oro era semplice: una sola famiglia, un solo conto.

Ma evidentemente quella regola valeva solo per me.

Alla cena di fine liceo della sorellina più giovane di Paolo — Giulia, 18 anni e zero voglia di cercare lavoro — la suocera annunciò, con il solito sorrisetto velenoso:

— Spero che presto il mio figliolo si trasferisca nella sua nuova casa… perché davvero, io sono stufa di riceverli qui.

Paolo colse l’occasione e, orgoglioso, disse:

— In realtà stiamo già cercando. È Laura che si occupa di tutto, sta seguendo ogni visita.

A quel punto il gelo scese sulla tavola come un temporale estivo. Luciana lo guardò come se avesse confessato un crimine.

— Ma… ti sei lasciato guidare da lei? Senza nemmeno parlarmi prima?

Poi si voltò verso di me, con il suo tono da martire:

— Tu pensi solo alla casa. Ma una vera moglie non si mette contro la famiglia del marito. Se lui ha quattro sorelle, tu hai quattro cognate. E cosa hai dato tu, in questi anni?

La sorella maggiore, Veronica, non perse occasione:

— È un’egoista. La casa la vuole tutta per sé. Mai che abbia chiesto: “Vi serve qualcosa?”

Mi venne voglia di alzarmi in piedi e urlare: “No, non ho chiesto. E sapete perché? Perché nessuna di voi ha mai nemmeno chiesto se stavamo bene. Avete solo preso, e basta.”

Ma non lo feci. Presi un sorso d’acqua e cercai di calmarmi.

Fu allora che Luciana afferrò Paolo per un braccio e lo trascinò in cucina.

Io rimasi a tavola con le tre sorelle. E mentre cercavo di contare fino a dieci, Giulia ridacchiò:

— Tanto noi ci trasferiamo con lui. Una stanza per me, una per Veronica. Tu dormi dove vuoi.

A quel punto mi alzai. Non servivano più parole. Mi infilai il cappotto e uscii. Paolo mi raggiunse poco dopo, salimmo in taxi e tornammo a casa in silenzio.

Quella notte lo guardai negli occhi. Speravo dicesse qualcosa, che smentisse tutto, che ridesse della follia appena vissuta.

E invece disse solo:

— Dobbiamo divorziare.

— Cosa?

— Devo pensare alla mia famiglia. Alla mia vera famiglia.

E se ne andò.

Due settimane dopo mi chiamò. Pretese metà dei risparmi. Glieli diedi. Non per debolezza. Ma per dignità.

Dopo due mesi, comprai un piccolo bilocale in zona Careggi. A mio nome. Con il mio stipendio. Dormivo su un materasso gonfiabile, niente tende alle finestre, ma avevo pace. E silenzio.

Ogni tanto penso a Paolo. A come si è lasciato spegnere. A quanto ha preferito essere figlio e fratello, invece che uomo e compagno.

Ma poi accendo la mia moka, stendo il bucato sul mio balcone, e mi dico:

Non era una casa che volevamo. Era libertà. E io, alla fine, l’ho trovata.